PRESENTAZIONE DI UN CASO DI SELF HARMING COMPULSION
Rossella Campigotto
Abstract
Le compulsioni basate sul piacere sono in epidemico aumento nelle ultime due decadi e poiché la letteratura clinica sull’argomento tende a darne un’immagine antiquata come di patologie autodistruttive, supponendo quindi pregiudizi di carattere moralistico e riduttivistico, ho voluto approfondire l’argomento.
Il self harming compulsion è un disturbo comportamentale spesso denotato da una natura insieme bizzarra, sorprendente e insolita. Per la maggior parte delle persone è inconcepibile credere che alla base di comportamenti di autolesionismo ci sia la sensazione di un travolgente piacere.
Voglio qui analizzare un caso esemplificativo di comportamento autolesivo basato sul piacere che ho incontrato nella mia esperienza clinica: il caso di Katy una ragazza adolescente che si autolesionava tagliandosi i polsi di continuo (con taglierino, lame di temperino ed elastici). All’inizio della problematica, questi comportamenti avevano un carattere compensatorio rispetto alla sofferenza psichica (dovuta alla morte del nonno). Gradatamente poi si sono trasformati, attraverso la loro ripetizione nel tempo, in una vera e propria compulsione basata su di un piacere irrefrenabile.
L’approccio psicoterapeutico è stato di tipo breve strategico. Intendo qui illustrare il percorso svolto, le manovre terapeutiche e la comunicazione utilizzata per abbattere una resistenza al cambiamento molto forte da parte di Katy, ma tipica di questi casi.
L’intervento per concludere ha dato ottimi risultati già dalle prime sedute confermando come alla base vi era il piacere di tagliarsi.
Il trattamento del self harming compulsion
“Il vero mistero è ciò che si vede e non l’invisibile” dice Oscar Wilde. Questa frase descrive pienamente la reazione delle persone comuni quando sentono parlare di casi di autolesionismo o self harming compulsion. Questi appaiono infatti come comportamenti incomprensibili, strani, contro natura. Per la maggior parte delle persone, non esperte della materia, infatti, è inconcepibile credere che alla base di tali problematiche vi sia la sensazione di un travolgente piacere.
Il self harming compulsion è un disturbo comportamentale. Nelle ultime due decadi si è verificato un epidemico aumento di casi di autolesionismo. L’età di esordio è stimata fra i 12 e i 14 anni di vita. Il fenomeno dopo i 20 anni di età decresce ed ha una prevalenza netta nel genere femminile del 97%.
Non esistono criteri diagnostici precisi per i comportamenti autolesivi. Solitamente sono ricondotti a disturbi di personalità borderline o a condotte autodistruttive o suicidarie. Ciò è lontano, però, da quanto riferito dai racconti dei pazienti che affermano che alla base vi sia una sensazione di piacere nel procurarsi ferite, tagli o altro (Nardone, Selekman, 2011).
La letteratura tende a darne un’immagine antiquata come di psicopatologie autodistruttive che suppongono quindi pregiudizi moralisti e riduttivistici e frequentemente tende, erroneamente, a sovrapporre il tentativo di suicidio e la compulsione all’autolesionismo.
La confusione presente in letteratura, anche rispetto all’associazione del self-harming compulsion con altri disturbi (per esempio il vomiting,) determina un’elevata frequenza di errori diagnostici e successivi insuccessi dei percorsi di cura.
La maggior parte degli autori rifiuta l’idea che una compulsione contro natura, che produce lesioni fisiche e organiche, possa essere vissuta dal soggetto come una forma di estremo piacere. Posizione quest’ultima sostenuta dalla Psicoterapia Breve Strategica e che il caso da me risolto, che riporto, conferma.
Il self harming compulsion fa parte degli atti autolesivi minori e compare non come atto autodistruttivo ma come modalità autopunitiva in cui il soggetto si arreca un dolore per sedarne un altro di carattere emozionale. E’ tipico di soggetti con mancato controllo dell’impulsività o affetti da compulsività. Tali atti vanno distinti dagli atti autolesivi maggiori tipici di soggetti con diagnosi di schizofrenia o di demenze (Favaro, Ferrara, Sannastaso, 2004). Il self harming compulsion riguarda quindi atti autolesivi minori poiché tali comportamenti non provocano, almeno nell’immediatezza, danni invalidanti o permanenti alla persona. Ne sono esempi: tagliuzzarsi, realizzare piccole ustioni, scorticarsi l’epidermide, strapparsi peli o capelli, percuotersi parti non pericolose del corpo. Non sono atti suicidari poiché il loro scopo non è mettere fine alla propria vita, bensì torturarsi e cercare compulsivamente sensazioni forti. Le pazienti sono delle vere e proprie sensation seekers.
Secondo la Psicoterapia Breve Strategica il lesionarsi compare inizialmente come comportamento compensatorio rispetto alla sofferenza psicologica vissuta. Poi gradatamente, tramite la ripetizione nel tempo, si trasforma in un rituale piacevole, in una vera e propria compulsione piacevole e inarrestabile ( Nardone, Verbitz, Milanese, 1999; Nardone, 2003c; Nardone, 2007b; Nardone, Balbi, 2008: Balbi, Artini, 2009). Il disturbo quindi si evolve nel tempo. Quindi la sua persistenza nel presente ha una struttura che si distingue dalla funzione che aveva nel passato. I pazienti stessi confermano inequivocabilmente nei colloqui quanto affermato dalla visione della Psicoterapia Breve Strategica, cioè che il disturbo si basi sul piacere. L’infliggersi ferite, tagli, scottature o altro rappresenta per loro una sorta di goduria sublime.
Il caso di Katy descrive bene tutto ciò. Riporto di seguito questo caso esemplificativo e alcuni passaggi della relazione scritta dalla madre a conclusione del trattamento.
Katy era una ragazza di 16 anni che aveva iniziato a manifestare sofferenza e irrequietezza circa due anni prima che io la prendessi in trattamento, il mese successivo alla morte di un nonno.
La madre riferisce: che la vedeva troppo “attaccata” al cellulare a scrivere messaggi su whatsapp continuamente e con molto nervosismo.
La ragazza non parlava coi genitori del suo stato emotivo ad eccezione di un giorno in cui è iniziata una situazione del tutto spiacevole per lei in quanto aveva litigato con alcune compagne di scuola. Katy ha riferito della situazione alla madre che l’ha trovata molto scossa.
Successivamente da scuola scrive un messaggio alla mamma dicendole che voleva andare a casa in quanto non si sentiva bene ed era molto nervosa e agitata a causa della situazione che stava vivendo con i compagni.
Vista la situazione di sofferenza, la mamma aveva contattato una psicologa cognitivo-comportamentale. Inizialmente Katy non ne voleva sapere.
La terapeuta sembrava molto disponibile e ha avuto fin da subito un buon approccio con Katy, il che poteva essere positivo per lei e per la soluzione della sua problematica. La psicologa riferì alla madre ciò di cui non era al corrente e cioè che Katy era anche autolesionista. Era il periodo autunnale e la ragazza portava maglie a maniche lunghe ed era impossibile accorgersi dei tagli, che la madre aveva poi notato nei periodi successivi.
Da allora la psicologa aveva iniziato con Katy una serie di incontri settimanali ma riferisce la mamma:
“…non notavo alcun miglioramento. Addirittura ha lasciato la scuola per 5 mesi e si è isolata completamente dal mondo: né amici, né cellulare. Tutto il giorno sul divano. A nulla servivano le parole di incoraggiamento della terapeuta.
Era apatica, senza motivazione e ogni giorno ripeteva il suo gesto, ossia tagliarsi. Questo le dava sollievo ai dolori che sentiva e che non riusciva ad esternare. Con noi genitori era chiusa, irrequieta e come diceva lei “indossava una maschera”. Si confidava solo con qualche amico via chat con il quale si collegava in modo sporadico.
Nel frattempo scriveva su un quadernino, a mia insaputa, frasi molto forti di odio soprattutto verso sé stessa e faceva disegni altrettanto molto forti ricongiungibili anche al suicidio o comunque desiderio di morire. A questo si aggiungevano visite in internet di pagine Instagram e altri programmi collegati all’autolesionismo, con immagini molto forti che ormai controllavo come unica possibilità per conoscere il livello della sua sofferenza”.
Dopo 5 mesi la ragazza ha voluto rientrare a scuola, manifestando moltissime difficoltà dal punto di vista personale e scolastico. Era carica di ansia, che non le permetteva di vivere in modo sereno il rientro, né il recupero dello studio che aveva completamente abbandonato nel corso dei 5 mesi di assenza.
L’anno scolastico, grazie all’aiuto dei professori, è stato superato con delle “fragilità” che doveva recuperare l’anno successivo. Gli incontri con la psicologa non sono mai stati interrotti, ma nonostante questo non si notavano miglioramenti di alcuna sorta.
Dopo alcune ricerche e suggerimenti, la ragazza fu inviata a me in uno dei miei studi per un nuovo percorso di psicoterapia. La madre dichiara:
“…questo tipo di approccio ha ottenuto già da subito piccoli risultati. Infatti dopo alcune sedute, Katy ha iniziato gradualmente ad interrompere questa sua abitudine autolesionista aumentando sempre più l’intervallo tra un taglio e un altro. Anche dal punto di vista emotivo iniziavano ad essere maggiori i giorni in cui era più serena, più interessata alla scuola stessa, anche se era carica sempre di ansia dovuta al fatto che purtroppo gli insegnanti non erano del tutto comprensivi e collaborativi.”
Iniziato a settembre un nuovo anno scolastico, Katy non aveva dato alcuna dimostrazione di interesse. I professori sono tutti cambiati e non sono stati messi al corrente della sua situazione. Parlando con loro e il dirigente scolastico, come suggerito da me, è stato deciso di intraprendere un percorso di aiuto “bes” con un relativo PDP (Piano Didattico Personalizzato), per far sì che gli insegnanti potessero darle una mano ed alleggerire i suoi impegni per poter facilitare il recupero dei 5 mesi di scuola persi in precedenza.
La mamma riferisce:
“Ci sono stati episodi sporadici apparentemente forti e dove noi genitori abbiamo pensato che fosse di nuovo “caduta”, temendo il peggio. Ma abbiamo notato molti aspetti positivi, inizialmente in piccole dosi, poi sempre più presenti, come ad esempio l’abbandono dei disegni negativi, delle frasi negative che scriveva in un quaderno, oltre che su foglietti presenti nel diario, oltre che frasi e immagini tratte da internet, maggior interesse verso le varie attività come vacanze, gite, la danza che praticava da anni e che fortunatamente non ha mai interrotto, maggior fiducia nei nostri confronti, maggior disponibilità con la psicoterapeuta e la terapia stessa, maggior apertura nei nostri confronti soprattutto io come mamma. Soprattutto una gran forza nel voler affrontare i suoi rapporti con la scuola, docenti e compagni che ancor oggi sono difficili, in quanto trova poca disponibilità e comprensione da parte loro”.
Per riassumere, dopo alcune sedute gradualmente la ragazza interrompe l’autolesionismo aumentando sempre più l’intervallo tra un taglio e un altro. Ad oggi Katy ha superato le difficoltà scolastiche e ha notevolmente migliorato il rapporto con la madre, i compagni di scuola e con la maggior parte dei professori, oltre che risolto il suo problema.
Il protocollo di trattamento ha previsto l’utilizzo del dialogo strategico (Nardone, Salvini, 2004) costituito da una serie di domande strategiche ( cioè domande costituite di due opposte possibilità di risposta tra cui la paziente può decidere per descrivere meglio la propria problematica) disposte ad imbuto, cioè partendo da domande generali andando verso il particolare, che portano la paziente alla scoperta di come funziona il suo problema e di punti di vista alternativi al suo che la portano a modificare la percezione della realtà e quindi determinano il cambiamento delle sue reazioni. Per esempio ho chiesto alla paziente: “Parli del tuo problema con qualcuno o tieni tutto per te?” oppure “Il tuo tentativo di limitarti nel mettere in atto il tuo rituale, migliora o peggiora il tuo problema?” oppure “Il tuo rituale serve per punirti e farti del male o lo fai per puro piacere?”.
Il dialogo strategico è una tecnica di colloquio strutturata costituita anche di parafrasi ristrutturanti, ogni due o tre domande, che chiedono conferma alla paziente di quello che si è compreso ( “Correggimi se sbaglio, mi sembra di aver capito…..”) ed hanno tre scopi principali: verificare di aver compreso, far sentire alla paziente che la si sta ascoltando e si sta dando valore a quello che dice, creare piccoli micro accordi progressivi che portano il soggetto ad auto-persuadersi che quello che sta facendo, in realtà, invece di risolvere il problema, è ciò che lo mantiene e la fa peggiorare a lungo andare. Durante il dialogo strategico si cerca di evocare sensazioni per poter parlare ai due emisferi del cervello. Per esempio ho detto a Katy: “ E’ come se tu ti fossi costruita attraverso questo rituale una piacevole parentesi con un amante segreto da cui trarre un piacere travolgente”. Infine si riassume per ridefinire cioè si tirano le somme di tutto ciò che è stato detto, prima di dare indicazioni terapeutiche, per poter sollecitare una scoperta congiunta. Tutto ciò crea un effetto suggestivo sulla paziente utile, per esempio, quando le si deve far notare che i tentativi di uscire dal problema messi in atto non sono serviti e che necessita di alternative per risolvere la situazione.
Per quanto riguarda il linguaggio sono state utilizzate due modalità: quella logica e quella analogica con lo scopo di portare la paziente a sentire determinate sensazioni ed abbattere la resistenza al cambiamento.
Il protocollo di trattamento della Psicoterapia Breve Strategica prevede soluzioni psicoterapeutiche calzate alle caratteristiche del paziente, del problema e alla sua specifica struttura. E’ necessario quindi adattare il percorso ad ogni singolo soggetto.
Per l’analisi del caso possiamo distinguere tre livelli: a livello percettivo esso risulta essere un rituale piacevole, a livello comportamentale la paziente esegue tagli con lame o elastici, parla del problema in modo particolare col fidanzato e con alcuni amici e cerca invano di non mettere in atto quei comportamenti, a livello terapeutico sono state date prescrizioni alla paziente da eseguire tutti i giorni grazie all’utilizzo anche dell’ipnosi senza trance e di un meticoloso lavoro di relazione terapeutica con la paziente.
Le prescrizioni principali utilizzate per risolvere il caso sono state essenzialmente tre. La prima è la tecnica dell’intervallo (Nardone, Selekman, 2011). Ho detto alla ragazza: “Sei libera di mettere in pratica il tuo rito e tagliarti ma, prima di iniziarlo, dovrai fermarti ed attendere mezz’ora, poi potrai tagliarti”. L’intervallo è stato poi progressivamente aumentato fra una seduta e l’altra. La seconda prescrizione è la “congiura del silenzio” (Nardone, 2000) cioè è stato chiesto ai genitori ed alla ragazza di non parlare del problema in famiglia o con altri per evitare di aggiungere fertilizzante sulla pianta e farla crescere, strategia tentata fino ad allora per cercare di risolvere il problema ma che non aveva dato esiti positivi, e l’”Osservare senza intervenire” prescrizione data ai genitori che dovevano evitare qualsiasi tipo di intervento e riferirmi ciò che la paziente “faceva di diverso dal solito” e che poteva essere oggetto di intervento da parte mia ( Nardone, Balbi, 2008). Infine, è stata utilizzata la tecnica solution oriented del comportarsi “come se” ( de Shazer, 1985, 1988, 1994) il problema non ci fosse e non ci fosse mai stato per consolidare i risultati raggiunti a conclusione del trattamento e per evitare ricadute.
Per quanto riguarda la relazione con la paziente, essa riveste un ruolo cruciale per la risoluzione di casi di questo tipo. Durante le sedute, il terapeuta instaura una vera e propria danza a livello comunicativo che consiste nel fluttuare continuamente fra una dimensione di intimità ed una di distacco, fra una dimensione di calore e poi di freddezza. Lo scopo è di abbattere la resistenza al cambiamento che è fortissima in questi casi soprattutto poiché il problema si fonda sulla sensazione di un piacere travolgente e serve stimolare la collaborazione da parte del paziente.
L’obiettivo della terapia è trasformare il piacere travolgente in qualcosa di sgradito, poco attraente e a cui si può rinunciare, liberando così le energie implicate nello svolgimento del rituale per utilizzarle in altre cose più utili e piacevoli (hobby o nella vita di tutti i giorni). La relazione e la comunicazione sono fondamentali per portare a termine con successo la psicoterapia che non può non considerare che si ha a che fare con persone dalle caratteristiche personali particolari e originali.
La sfida terapeutica in questi casi riguarda la resistenza al cambiamento messa in atto dalle pazienti. Tale difficoltà di trattamento è ampiamente riconosciuta perché sono pazienti minacciose, ricattatrici, provocatorie oppure seducenti comunque estremamente resistenti al cambiamento terapeutico. Durante il percorso è necessario sempre e comunque che il terapeuta adatti la relazione con la paziente e il linguaggio utilizzato alle specifiche peculiarità e caratteristiche del paziente che ha di fronte e del suo contesto.
In conclusione i risultati sono arrivati già dopo le prime sedute. Con poche manovre terapeutiche si è risolto il problema e Katy ha potuto affrontare e risolvere anche altre problematiche con successo (la scuola ed il suo rapporto con la madre e il mondo). Per quanto riguarda gli effetti delle strategie, l’osservare senza intervenire ha permesso alla famiglia di evitare di fare ciò che non aveva funzionato fino a quel momento, la congiura del silenzio è servita per evitare di aggiungere fertilizzante sulla pianta del problema e mantenerlo nel tempo, rischiando di volta in volta di farlo peggiorare ancora di più e la tecnica dell’intervallo ha stancato Katy perchè aspettare le ha tolto il piacere del rituale.
La risoluzione del caso indica che il problema si basava sulla sensazione del piacere, contrariamente a quanto affermato dalla maggior parte della letteratura sull’argomento. L’approccio psicoterapico breve strategico si è rivelato utile e si potrebbe dire “istantaneo” nella risoluzione definitiva della problematica e ciò è importante in questi casi poichè è necessario intervenire in tempi rapidi e con risultati concreti.
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